L’estetica “cyberpunk” ha sempre avuto un forte ascendente su di me e, ancora oggi, riesce a scatenare un’ondata di ricordi (e perché no, nostalgia) difficile da respingere. 

Ed è forse per questo che, nonostante tutto, ho scelto di vivere Night City fin dal day one di Cyberpunk 2077 – e di tornarci anni dopo, con due run in più, quando il gioco aveva finalmente raggiunto la sua forma definitiva, DLC incluso.

Night City
Night City non è solo lo sfondo di Cyberpunk 2077. È un personaggio a sé.

Quando si fonde con la pixel art, poi, quelle sensazioni si amplificano. Sarà pure un cliché per chi è cresciuto negli anni anni 80, ma è un linguaggio visivo con il quale mi sento a casa. Per questo motivo ho giocato (e amato) titoli come Narita Boy e Turbo Kid.

Narita Boy e Turbo Kid
Narita Boy – Studio Koba (2021) | Turbo Kid – Outerminds (2024)

Entrambi, in modi diversi, mi hanno ricordato quanto mi affascinasse quel futuro sporco, costellato di luci al neon e disillusione. Così, quando vidi le prime immagini di Neon Blood, non ebbi dubbi: lo avrei giocato al 100%.

Aveva tutto quello che cercavo: pixel art dettagliatissima, atmosfere alla Blade Runner, una metropoli sospesa tra lusso e decadenza. 

Eppure, dopo pochi minuti, ho iniziato a sentire una strana sensazione. Una crepa nella superficie perfetta. Perché sì, lo stile c’era.

Ma non è tutto oro quello che è neon.

Un’insegna al neon, pioggia battente e grattacieli nell’oscurità: Neon Blood ci accoglie così.

Fin dai primi minuti, Neon Blood non fa nulla per nascondere la sua ambizione: Viridis, la gigantesca città in cui è ambientato il gioco, è un organismo vivo, spezzato in due anime in perenne contrasto. 

Da un lato Bright City, un paradiso artificiale fatto di vetro, metallo e pubblicità olografiche, dove l’élite si rifugia dietro tecnologie opulente e promesse di eternità. Dall’altro, Blind City, un agglomerato di macerie e degrado urbano dove la vita ha perso quasi ogni dignità. 

La divisione è netta, brutale, e perfettamente leggibile a schermo. È difficile non restare colpiti dalle prime passeggiate tra i vicoli illuminati al neon o dalle insegne sfarzose che sembrano deridere la miseria sottostante. In questo scenario prende forma la storia di Axel McCoin, ex detective e tossicodipendente, un antieroe che si muove tra rifiuto e redenzione.

 Una partenza affascinante, densa di suggestioni e citazioni — Blade Runner è il primo nome che viene in mente, ma non l’unico. E anche se a volte le atmosfere sembrano più grandi della storia stessa, il colpo d’occhio funziona, eccome.

Neon Blood - Alex McCoin
Axel McCoin, protagonista di Neon Blood

Neon Blood: indagare o seguire un copione?

Quando mi è stato chiesto di “indagare” su un crimine mi sono sentito coinvolto all’istante. C’erano indizi da trovare, un corpo fatto a pezzi, e una città piena di sospetti e segreti. 

Ben presto, però, ho capito che in Neon Blood non si tratta tanto di indagare quanto di seguire un copione. La componente investigativa è più un pretesto narrativo che una vera meccanica ludica: si parla con gli NPC segnalati, si clicca sugli oggetti evidenziati, e la trama procede.

Nessuna deduzione, nessun errore possibile, nessuna ramificazione vera nel processo investigativo. È come se il gioco avesse paura di lasciarti spazio, di farti sbagliare, di farti sentire parte attiva. 

Questa rigidità si riflette anche nella narrazione: per quanto Viridis sia narrativamente stratificata, la storia di Axel resta su binari molto definiti, e le scelte morali, per quanto presenti, sembrano più decorative che realmente incisive. Ho continuato a giocare, attratto dall’estetica e dai dialoghi, ma quella promessa di libertà investigativa si è rivelata un miraggio.

Combattere (senza troppa fretta)

I combattimenti a turni in Neon Blood arrivano quasi di sorpresa, come se il gioco stesso non fosse del tutto convinto della loro necessità. Quando succede, la telecamera si sposta lateralmente e Axel si ritrova solo contro il nemico, in scontri dall’impostazione classica: attacco, abilità, oggetti, difesa. 

Nulla di male, anzi, per un attimo ho sperato in una pausa tattica nel ritmo narrativo. Ma anche qui, l’illusione dura poco. Le abilità sono poche, la strategia è praticamente inesistente, e il fatto che la salute si rigeneri automaticamente a fine battaglia toglie ogni senso di gestione del rischio. Basta ripetere l’attacco più forte — “colpo alla testa” — per superare quasi ogni ostacolo. 

I nemici sono scollegati da vere dinamiche ludiche e più spesso servono da intermezzo narrativo che da sfida. Nessun alleato entra mai in campo con Axel, anche quando la trama li mette al suo fianco. E così anche il sistema di combattimento, che avrebbe potuto essere un buon diversivo, si rivela solo un’altra strada dritta da percorrere, senza deviazioni.

Un mondo che ti chiede solo di guardare

Se c’è un motivo per cui non ho mollato Neon Blood, è lo stile. Viridis è una città che ti costringe a rallentare, a fermarti, a guardare. I personaggi in pixel art si muovono come marionette malinconiche in scenari tridimensionali scolpiti dalla luce: insegne tremolanti, pioggia che cade a intermittenza, interni claustrofobici pieni di dettagli.

Neon Blood

C’è un amore sincero per l’estetica cyberpunk, che non si limita a riprodurre cliché, ma li modella in un linguaggio visivo coerente, personale. Ogni angolo di Blind City sembra raccontare una storia di miseria e resistenza, mentre Bright City si rivela una vetrina troppo lucida per non nascondere qualcosa. 

Anche le cutscene, brevi ma efficaci, contribuiscono a costruire un immaginario forte, spesso più potente delle parole che lo accompagnano. Neon Blood sa come mostrarsi, e lo fa benissimo: anche quando il gameplay tentenna, è difficile non restare affascinati da ciò che vedi. È un mondo che forse non ti ascolta, ma che sa farsi guardare, anche troppo.

Qualche inciampo di troppo

Al di là delle scelte di design discutibili, Neon Blood inciampa anche su aspetti più basilari. Il sistema di salvataggio, per esempio, si affida completamente all’autosave: niente salvataggi manuali, nessun controllo reale sui propri progressi. 

Può sembrare un dettaglio, ma quando il gioco si blocca — e mi è successo almeno un paio di volte durante semplici dialoghi — l’impossibilità di tornare indietro o riprendere da dove vuoi diventa frustrante. A questo si aggiungono piccoli bug grafici, pathfinding impreciso in alcune mappe, e una certa legnosità nei controlli. 

Nulla di devastante, intendiamoci, ma l’insieme pesa, soprattutto quando già il gameplay tende a ripetersi. Fortunatamente alcune patch post-lancio hanno migliorato la situazione (come l’aumento della velocità di movimento o la risoluzione di alcuni freeze specifici), ma si ha spesso la sensazione che il gioco sia uscito un po’ troppo presto, o almeno senza la lucidatura necessaria per sostenere il suo potenziale artistico.

Neon Blood
Tra i piccoli bug grafici ho riscontrato anche questo delle bande nere, che compaiono in alcune inquadrature.

Neon Blood è una breve corsa tra luci e ombre

Neon Blood si completa in poco più di quattro ore

Un tempo che, sulla carta, potrebbe funzionare per un’esperienza narrativa compatta e intensa. Ma qui la brevità non gioca sempre a favore: molti eventi scorrono via troppo in fretta, alcuni personaggi si affacciano appena per poi sparire, e certe situazioni che meriterebbero spazio vengono risolte con sorprendente rapidità. 

Al contrario, altre sezioni (come certi spostamenti o interazioni forzate) sembrano allungare inutilmente il passo. Il risultato è un ritmo altalenante, che alterna momenti visivamente memorabili a passaggi che sembrano esserci solo per riempire. Ed è un peccato, perché l’universo che ChaoticBrain Studios ha costruito ha carisma, ha identità. 

Ma il gioco sembra accontentarsi troppo presto, come se non osasse fino in fondo. Non è una questione di budget — è una questione di coraggio creativo e di coerenza ludica.

Neon Blood

Neon Blood è per chi…

Neon Blood è un’avventura breve, atmosferica, fortemente autoriale, che privilegia la forma alla sostanza

Se cercate un gameplay profondo, un sistema di combattimento articolato o una struttura investigativa stimolante, rischiate di restarne delusi (così come lo sono stato io). 

Ma se, invece, siete attratti dalle città rotte ma affascinanti, dai personaggi imperfetti, e da quelle storie che — anche se zoppicano — provano comunque a dire qualcosa, allora potreste trovarci qualcosa di personale. 

È un’esperienza che si guarda più di quanto si giochi, e forse il suo valore sta proprio lì: nel tentativo sincero, anche se imperfetto, di raccontare il lato umano di un mondo disumanizzato.

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